Nel tempo in
cui tutto è scientifico, come si possono mantenere tranquillamente, nei testi
fondamentali per la fede cristiana, errori materiali di traduzione?
Testo greco originale
1Ἐπειδήπερ
πολλοὶ ἐπεχείρησαν
ἀνατάξασθαι
διήγησιν περὶ
τῶν πεπληροφορημένων
ἐν ἑμῖν πραγμάτων,
2καθὼς παρέδοσαν
ἑμῖν οἱ
ἀπ᾽ἀρχῆς
αὐτόπται καὶ ὑπηρέται
γενόμενοι τοῦ
λόγου, 3ἔδοξε
κἀμοῖ παρηκολουθηκότι
ἄνωθεν πᾶσιν
ἀκριβῶς καθεξῆς
σοι γράψαι,
κράτιστε
Θεόφιλε, 4ἳνα
ἐπιγνῷς περὶ ὧν
κατηχήθης
λόγων τὴν
ἀσφάλειαν.
(Lc 1,1-4)
Traduzione latina, del IV secolo
Quoniam quidem multi conati sunt ordinare narrationem,
quae in nobis completae sunt, rerum, sicut tradiderunt nobis qui ab initio ipsi
viderunt et ministri fuerunt sermonis, visum est et mihi, assecuto omnia a
principio diligenter, ex ordine tibi scribere, optime Theophile, ut cognoscas
eorum verborum, de quibus eruditus es, veritatem.
È una tipica traduzione
affrettata, trattandosi di pochi
versetti a cui non si attribuiva importanza e sembravano inutilmente difficili.
Si deve notare che San Girolamo, effettuando la traduzione dei Vangeli in
latino, non partì da zero ma conservò traduzioni precedenti, modificando
soltanto ciò che sembrava alterare il senso del greco originale.
La versione dal greco in latino contiene
diversi errori gravi che però, essendo antichi, furono ritenuti nei secoli interpretazioni
autorevoli. Questi e numerosi altri errori entrarono perfino nel
vocabolario greco e diedero luogo alla convinzione che esista un “greco del
Nuovo Testamento”, isolato dai linguaggi di quel tempo.
Conati sunt, hanno tentato, ma il significato
classico è hanno intrapreso, hanno iniziato, han posto mano.
sicut tradiderunt nobis (come ce [li]
hanno trasmessi) nel testo greco manca il complemento oggetto e, nel
tradurre in latino, l’hanno sottinteso, ossia hanno riferito il verbo a quae
in nobis completae sunt, res (le cose che si sono concluse tra noi)
in realtà il complemento non c’era perché il significato è un altro: come ci
hanno concesso.
viderunt et ministri fuerunt è stata sdoppiata la
proposizione, che contiene un solo verbo e due predicati nominali; autòptai
(testimoni oculari) è sostantivo, non participio; genòmenoi è
usato normalmente da Luca con il significato di “che sono stati”, non “che
sono divenuti”. Si deve notare che la stessa traduzione in latino, pur
introducendo due verbi, ne mantiene la contemporaneità.
eorum verborum, de quibus eruditus es, veritatem queste frasi contengono
due errori: 1) perì òn presenta attrazione del relativo tra perì tòn
e oùs; non è stata individuata correttamente da chi ha tradotto,
cosicché ha dato luogo a due espressioni, tèn asphàleian logon (la
verità delle parole) e perì òn katekèthes (sulle quali sei stato
istruito); in realtà si dovevano distinguere tre espressioni, tèn
asphàleian (la documentazione), perì tòn lògon (circa le
relazioni dei fatti) e oùs katekèthes (che hai ricevuto a voce);
2) de quibus eruditus es presenta
una costruzione inesistente in greco, se non proprio nel “greco del Nuovo Testamento”,
altrettanto inesistente: il verbo katekèthes (sei stato informato,
hai conosciuto a voce) è passivo ma regge l’accusativo dell’oggetto di
cui si è stati informati a voce; in questo caso specifico si afferma che ci
sono state, in momenti diversi, varie relazioni a voce dei fatti che
si sono conclusi tra noi, effettuate da alcune persone a Teofilo. Questi
poi le ha riportate all’imperatore Tiberio (Tertulliano, Apologeticum,
5,2).
Traduzione riveduta
Poiché molti hanno appunto incominciato a strutturare
un racconto ufficiale riguardante gli avvenimenti che si sono conclusi tra noi,
come ci hanno concesso coloro che dall'inizio (ne) sono stati testimoni diretti
e incaricati della relazione, anch'io, dopo aver acquisito ogni cosa da cima (a
fondo) con esattezza, ho deciso di scrivere ordinatamente a te, eccellentissimo
Teòfilo, perché tu veda la documentazione attinente le relazioni che hai
ricevuto a voce.
La traduzione, così
effettuata, è letterale e coerente, non ipotetica, anche se certamente potrà essere
migliorata.
Analisi
Nei Vangeli non è
facile trovare notizie che spieghino come e quando gli evangelisti li abbiano
scritti, almeno a prima vista. Però, all’inizio del Vangelo di Luca, ci sono
questi quattro versetti che conservano informazioni preziose.
Sono poche righe, un
solo periodo sintattico, qualcosa di unico negli scritti del Nuovo Testamento,
che non viene spiegato o precisato in nessun’altra parte. Sicuramente questo
passo è stato scritto in greco all’origine, sia per termini ricercati che usa,
sia per la complessità della costruzione, sia per la concisione. Le parole e le
frasi sono difficili da tradurre e già la traduzione del IV secolo, in latino,
è approssimativa.
Allora dobbiamo
procedere per tentativi, alla ricerca del significato convincente per ogni
parola e per l’intero periodo. Finché non si trova il significato definitivo di
ogni termine, sembra che il brano sia incerto, mancante di qualche pronome,
stentato. Soltanto dopo aver trovato il senso compiuto, e più semplice, ci
rendiamo conto che non manca niente di necessario: il periodo è ben costruito.
Un aiuto determinante per decifrarlo ci viene dagli Atti degli Apostoli,
l’altra opera di Luca, che contiene vari passaggi con un linguaggio simile: il
decreto del concilio di Gerusalemme, i discorsi pronunciati in tribunale
davanti a Felice, Festo e Agrippa; altri testi di carattere giudiziario e
amministrativo.
Ma possiamo sempre
trovare il significato delle parole nel vocabolario di Greco, evitando di
prendere in considerazione i significati aggiunti appositamente a partire dalla
tradizione in latino di questo passo. Luca infatti si dimostra ottimo
conoscitore della lingua greca. Probabilmente era cresciuto ad Antiochia e poi
si era trasferito a Gerusalemme. L’inizio del suo Vangelo si può considerare
scritto con il linguaggio dei documenti ufficiali di allora e questo ci fa
pensare che egli fosse un pubblico ufficiale, medico del Tempio.
Un’annotazione:
troverete qui delle date spostate avanti di 3 anni. Sono quei tre anni che
Tiberio ha “perso” tra il 34 e il 40 d.C. (vedere le pagine “date” e “linea del tempo”).
Le date tradizionali sono riportate tra parentesi.
Ἐπειδήπερ
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Poiché appunto
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Epeidh indica una successione temporale-causale:
“dopo che”, “poiché”. Il rafforzamento -per
significa “proprio”, “appunto”. Luca ha trovato qualcosa di già fatto, ottimo
per lo scopo che si è prefisso.
Rileviamo la correlazione «Ἐπειδήπερ
πολλοὶ..., ἔδοξε
κἀμοῖ. Luca usa la stessa
correlazione in un altro documento ufficiale, il decreto del Concilio di
Gerusalemme (At 15,24-25): Ἐπειδή..., ἔδοξεν...
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πολλοὶ
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molti
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Quale importanza ha il fatto che siano in «molti» a ricomporre il racconto? Può
essere segno di incertezza nel trovare informazioni sicure? Può voler dire
che ci sono stati vari tentativi, nessuno riuscito?
E perché «molti»
tentativi, se a noi non è giunto nient’altro che il testo dei quattro Vangeli
canonici? Gli apocrifi sono molto più tardivi. Al massimo Luca avrebbe potuto
dire «alcuni», ma pochi e
insignificanti, che sono andati persi.
Oppure la situazione è un’altra? Perché non
ipotizzare che molti si fossero riuniti a Gerusalemme per comporre un nuovo
racconto, che facesse emergere le ricchezze contenute in un testo originale,
come da un «tesoro»? Questo ci è suggerito da Mt 13,52. Supponiamo, dunque,
che il riordinamento di cui si parla qui sia proprio il Vangelo di Matteo,
immediatamente in greco.
Dire “che gli avvenimenti si sono compiuti tra
noi” aveva senso rivolgendosi a un ebreo, e prima della rivolta giudaica,
perché, in seguito a quegli avvenimenti sconvolgenti, questo “tra noi” era
divenuto impossibile.
Nemmeno “come li hanno trasmessi” ha senso,
perché prima della rivolta giudaica sono passati soltanto 36 (33) anni.
Avrebbe più senso dire “come ce l’hanno consegnato”, ma scritto perché non si consegna un racconto orale. Allora perché
“riordinarlo”?
E d’altronde non serve “stendere un racconto
come ce l’hanno consegnato”, perché è già steso. E non si consegnano né si
trasmettono gli avvenimenti, ma il loro racconto scritto.
Comunque si tratta di un solo racconto scritto,
altrimenti si sarebbe detto: “stendere una relazione degli avvenimenti come
ce li hanno raccontati”.
Né ha senso dire “molti hanno tentato di
stendere un racconto”, perché il greco è preciso e sarebbe “dei racconti”.
Tanto più che il verbo significa difficilmente “tentare”, ma più normalmente
“incominciare”, “accingersi”.
Se dunque non è corretto “ce (l’)hanno
trasmesso”, “ce (l’)hanno consegnato”, esiste il significato “ci hanno
concesso”. Non è riferito al racconto.
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ἐπεχείρησαν
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hanno incominciato
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È il significato più normale di ἐπιχειρὲω: “hanno incominciato”, “posto mano a…”; non
“tentato di…”. Nei vocabolari di Greco troviamo questo secondo significato,
ma è ricavato proprio dagli scritti di Luca, ossia da errori di traduzione.
Niente autorizza a interpretare il verbo come se ci fossero stati tentativi
precedenti, non riusciti, e Luca si sentisse l’unico capace di dare «la
sicurezza», dopo che era passato parecchio tempo. Come si può immaginare
tanta presunzione in lui?
D’altronde, se avesse voluto ricordare
che c’erano stati molti tentativi, perché ha usato questo verbo che
normalmente significa “hanno incominciato” e non ha scritto semplicemente:
«Poiché ci sono giunti molti racconti…»? Vista in questo modo, la questione
apparirebbe chiara ma poco ragionevole. Infatti Luca avrebbe potuto
certamente effettuare una diligente raccolta di queste narrazioni, ma non
presentarla come una “sicurezza”.
Qui si parla in realtà di un’impresa
che avevano «incominciato» da poco, in «molti».
Altre due volte Luca usa il verbo ἐπιχειρὲω: At 9,29; 19,13. Nel primo caso, è
all’imperfetto e significa «“si accingevano a…”, ”macchinavano di…”
ucciderlo»; infatti i fratelli ebbero il tempo di accorgersi che gli
ellenisti stavano preparandosi a uccidere Paolo e poterono allontanarlo da
Gerusalemme. Nel secondo passo è all’aoristo, esattamente come in Lc 1,1, e
significa «“si misero a” invocare il nome del Signore Gesù»: non “tentarono”
di invocarlo, lo invocarono realmente, per provare anche loro a scacciare i
demoni.
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ἀνατάξασθαι
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a strutturare
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L’avverbio “ana” ha un senso di moto, “da sotto in su”; il
verbo, nella diatesi media, indica un “interesse”, uno scopo personale. I «molti», servendosi del tesoro di cui dispongono, “hanno
incominciato a innalzare la struttura di un racconto, per un loro scopo”.
Perché hanno intrapreso il
lavoro in «molti»? Quale scopo si prefiggono? Non si può pensare che stiano
riordinando ciascuno per conto proprio. In realtà abbiamo un libro, che è il
risultato di un riordinamento fatto da «molti», ed è il Vangelo secondo
Matteo, in greco. Si presenta come la Nuova Legge del Cristo Re, che completa
la Legge di Mosè e le dà compimento.
Con questa ipotesi, che il Vangelo di
Matteo sia il rifacimento di un racconto precedente, già pubblicato, si
spiegano le incongruenze tra gli scritti di Matteo, Luca e Marco. Sono
intenzionali e non casuali e sarebbero state necessarie per pubblicare un
nuovo libro sullo stesso argomento.
Tuttavia, nell’ipotesi che
Matteo, altri scribi cristiani, testimoni e collaboratori avessero usato alcuni
ingegnosi espedienti per cambiare il più possibile il racconto originale,
dovremmo poter ritrovare anche in questo Vangelo la pura verità storica,
attraverso il raffronto con gli altri tre. In effetti, con i presupposti che
qui vengono offerti, si può riconoscere la fedeltà storica anche di ogni
informazione fornita da Matteo.
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διήγησιν
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un racconto ufficiale
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At 8,33 suggerisce che la genealogia di una
persona venisse raccontata, nome per nome, in modo sempre uguale; il vocabolo
“διήγησις” ha una connotazione tecnica: designa un
racconto di avvenimenti particolamente significativi che poteva essere
pubblicato per iscritto o espresso pubblicamente in forma fissa, a memoria,
come ci rivela Lc 1,66; 2,19.51; 24,8.
Quello che in molti stanno riordinando è «un»
racconto, non è l’unico. Quale altro racconto possiamo pensare ci fosse già,
prima dell’anno 38? Dall’analisi dei libri del NT, si può scoprire che il
Vangelo di Giovanni era già stato scritto quasi completamente. Mancavano
soltanto alcune annotazioni, scritte in margine man mano se ne presentava la
necessità e poi inserite nel testo arrivato a noi, pubblicato dopo il 70.
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περὶ τῶν
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circa gli
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πεπληροφορημένων
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che si sono conclusi
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“πεπληροφορημένων ἐν
ἑμῖν” è una frase
relativa implicita, simmetrica di “(οὓς) κατηχήθης”, e, in italiano, si deve tradurre in modo
esplicito.
Per il significato del verbo, vedere 2
Tm 4,5: “πληροφορήσον”: “compi appieno”.
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ἐν
ἑμῖν
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tra noi
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… che abitiamo a Gerusalemme (vedere Lc
9,51.53; 13,22; 17,11; 18,31; 19-24).
In ogni modo si poteva dire “che si sono
compiuti tra noi” rivolgendosi a un personaggio ebreo, prima della rivolta
giudaica, perché in seguito a quegli avvenimenti sconvolgenti era divenuto
impossibile ritrovare il gruppo sociale entro il quale i fatti si erano
compiuti o conclusi.
L’autore, Luca, e
il destinatario del documento, Teofilo, hanno visto la conclusione degli
avvenimenti. Se esaminiamo con attenzione l'episodio dei due discepoli che
andavano a Emmaus (Lc 24,13-36), notiamo che Luca vi si esprime con una
vivacità ignota in altri passi del suo Vangelo, proprio come un giovane che è
stato protagonista del fatto.
Matteo e
Giovanni, che avevano scritto la “relazione” dei fatti riguardanti Gesù, non
avevano agito di propria iniziativa, ma per un incarico ricevuto
ufficialmente da alcune autorità di Gerusalemme. Perciò Teofilo ne era al
corrente, anzi aveva contribuito a certificare le testimonianze
dell’evangelista Giovanni (Gv 19,35).
Pertanto Luca non sta scrivendo per
informare Teofilo, che conosce già i fatti, ma per un altro motivo. Quale?
L’imperatore Tiberio, nell’anno 35
circa, cercò di far approvare dal Senato di Roma una legge che riconoscesse
la divinità di Gesù Cristo (Tertulliano, Apologeticum, 5,2),
così che la religione cristiana fosse riconosciuta come religio licita,
ma non riuscì nel suo intento perché disponeva soltanto di una relazione
orale dei fatti avvenuti in Palestina e non di una prova.
Luca, per il modo in cui scrive, si
dimostra un pubblico ufficiale (Col 4,14: medico del Tempio?), mentre Teofilo
era candidato al sommo sacerdozio e amico dei Romani, perché di lì a poco,
nell’anno 40 (37) sarebbe stato insediato dal legato Vitellio nella carica
di sommo sacerdote (Giuseppe Flavio,
Antichità Giudaiche, XVIII,7,3). Teofilo, che aveva un nome greco, e Luca, che scriveva in greco, erano
ellenisti (vedere At 6,1ss).
È legittimo arguire che fosse stato Teofilo a fornire informazioni a Tiberio e che, dopo l’insuccesso
dell’imperatore, egli abbia cercato qualcosa di probante. Sapeva che Matteo
aveva già pubblicato un suo “Vangelo” in “ebraico” (testimonianza di
Origene: Eusebio, Hist. Eccl. VI,25,3; testimonianza di Papia: ibid.
III,39,15-16; Ireneo, Adv. Haer., III,1,1) e si rivolse a Luca, perché lo traducesse in greco e glielo
presentasse come documento ufficiale. Egli l’avrebbe trasmesso all’amico
imperatore. Ma nel 40 Tiberio morì e della legge in favore dei cristiani non
si fece più nulla. Rimase il documento ufficiale, come Vangelo secondo
Luca.
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πραγμάτων,
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avvenimenti
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I fatti non
vengono specificati, perché ne parla tutto il documento evangelico.
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καθὼς
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come
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παρέδοσαν
ἑμῖν
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hanno concesso a noi
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Per chiarezza, qui, sembrerebbe necessario un
pronome che si riferisca a ciò che viene “trasmesso”, cioè al racconto o agli
avvenimenti. In realtà basta tradurre “come ci hanno concesso” e il pronome
appare inutile.
Se poi riflettiamo un po’, ci accorgiamo che
non si possono “trasmettere” gli “avvenimenti”, se non con un racconto. Anzi,
non ha senso dire “come li hanno trasmessi a noi”, perché questi “noi”
c’erano soltanto prima della rivolta giudaica cioè fino a un massimo di 36
(33) anni dopo i fatti stessi. Si potrebbe dunque intendere “come ce l’hanno
consegnato”, riferendosi a un racconto degli avvenimenti, che doveva però
essere già scritto perché non “si consegna” un racconto orale. Semmai si
sarebbe scritto: “stendere una relazione degli avvenimenti come ce li hanno
raccontati”.
D’altra parte, non si potrebbe “ricomporre un
racconto” “come l’hanno trasmesso”: o lo si conserva com’è o lo si ricompone,
non si possono fare le due cose insieme. Ma sarebbe anche inutile trasmettere
“a noi” gli avvenimenti che “sono accaduti tra noi”. Se, per caso, “tra noi”
significasse “nella nostra terra, tempo fa”, Luca sarebbe stato attento a
esprimersi in modo tale che non lo si potesse interpretare in modo bizzarro,
come se i “testimoni” avessero “trasmesso a noi”, che siamo altrettanto
testimoni, ciò che “è avvenuto tra noi”.
Se dunque non va bene “ce li (questo pronome
non c’è nel testo) hanno trasmessi”, “ce (l’)hanno trasmesso”, ce (l’)hanno
consegnato”, esiste il significato “ci hanno concesso”. Non è riferito al
racconto né agli avvenimenti, ma ai testimoni e incaricati della relazione
scritta.
Tra i «molti» che «ricomposero», c’era
senz’altro anche l’evangelista Marco, che abitava a Gerusalemme ed era ancora
molto giovane (aveva una ventina d’anni), e c’era Luca stesso («ci hanno concesso»).
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οἱ
ἀπ᾽ἀρχῆς
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coloro
dall’inizio
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La parola di
almeno due testimoni è valida legalmente e universalmente.
Uno di questi è
Levi (Matteo), che lavorava come esattore delle tasse a Cafarnao. Una delle
sue mansioni era quella di annotare accuratamente le situazioni di chi gli
doveva denaro. Un giorno vide arrivare Gesù, lo sentì parlare, lo vide
compiere azioni straordinarie. Non venne nemmeno sera che egli già aveva
scritto ciò che gli era parso subito memorabile. Ma scriveva anche Giovanni
evangelista, incaricato da conoscenti importanti di Gerusalemme.
Ἀπ᾽ἀρχῆς... γενόμενοι, come in At 26,5 ἀπ᾽ἀρχῆς gενομένην. È un’espressione tecnica usata per certificare
che qualcuno è stato davvero in questa condizione fin dall’inizio. Nel caso
presente le condizioni da certificare sono due, necessarie e inscindibili
perché il λόγος sia valido: che sia attestato dai «testimoni oculari» e redatto da
«incaricati ufficiali».
La frase presenta
un solo verbo, il participio γενόμενοι. Si apre (posizione forte) con l'unico
soggetto, oi, che agiscono “fin dall’inizio”, e si chiude
(posizione forte) con λόγου, che “fin dall’inizio” è il risultato
dell’azione. Αὐτόπται e ὑπηρέται formano un unico predicato nominale e nulla
autorizza a separarli e a far dipendere soltanto il secondo dal verbo.
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αὐτόπται
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testimoni oculari, testimoni diretti
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Αὐτόπται è un sostantivo, non una forma verbale; parla
di persone che vedono con i propri occhi e non include il concetto di azione
compiuta nel passato, che, cioè, queste persone siano state prima αὐτόπται e poi ὑπηρέται. Di che cosa potevano essere testimoni? Dei
fatti appena nominati, ma questi furono testimoni “dall’inizio”, mentre Luca
e Teofilo ne hanno visto soltanto la conclusione.
Conformemente a
una norma consolidata del diritto, i testimoni erano almeno due. Due o più
testimoni rendono dunque autentica la relazione dei fatti.
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καὶ
ὑπηρέται
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e incaricati
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Questo termine, nella
letteratura greca, indica generalmente colui che esegue gli ordini di
qualcuno («rematore sotto il comando di altri»): esegue le disposizioni di un
magistrato, dipende da un medico, ecc. Esercita un servizio subalterno ma non
è schiavo: riceve uno stipendio
perché deve eseguire in modo particolarmente preciso e fedele il suo
servizio. È, di solito, un funzionario pubblico.
Matteo e i suoi scribi erano
funzionari pubblici che riscuotevano le tasse ed erano in grado di scrivere
un «verbale».
In Lc 4,20, il termine è
usato con il significato di “incaricato dei rotoli sacri”.
Nel considerare
la possibilità che il vocabolo assuma qui il significato, legittimo, di
"ministri" o "servitori", ci è di poca utilità
l’espressione di At 6,4: «
διακονία τοῦ λόγου». Διακονία indica normalmente un servizio, ma gli
Apostoli chiesero di potersi dedicare (At 6,4) in primo luogo «alla
preghiera», che comprendeva lo svolgimento del ministero sacerdotale affidato
da Gesù, e poi «al servizio della parola», secondo il comando di Gesù di rendergli testimonianza, ossia predicando ciò che avevano visto e udito da lui. Il compito degli
Apostoli era quello di testimoni, amministratori dei misteri di Dio ed
esecutori dei comandi di Gesù (At 26,16; 1 Cor 4,1), non di «ministri della
parola». Questi, tra l’altro, secondo il significato del termine dovevano essere stipendiati per il loro lavoro,
il che è inconciliabile con lo stato di evangelizzatori.
Qui, dunque, si
parla di αὐτόπται e di ὑπηρέται, due parti giuridiche che hanno concorso a
produrre il λόγος,
scritto e valido per uno scopo legale (ἀσφάλειαν): la parte che vede gli avvenimenti (αὐτόπτης) e la parte che li scrive materialmente in
modo fedele e autentico (ὑπηρέτης). Per noi, tanto lontani nel tempo, i due
termini servono anche a offrirci un significato particolare di “λόγος”: la narrazione di chi ha visto direttamente i
fatti, scritta e autenticata da pubblici ufficiali (per il giovanissimo
testimone e relatore Giovanni hanno certificato altri, come vediamo in Gv
3,33; 19,35; 21,24).
Ora, Matteo e Giovanni furono testimoni, ma
erano contemporaneamente pubblici ufficiali o fiancheggiati da pubblici
ufficiali, cosicché le due parti coincisero, e la loro «relazione» scritta
assunse grandissimo valore giuridico, perché era stata scritta da almeno due
pubblici ufficiali, mentre vedevano accadere i fatti.
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γενόμενοι
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che (ne) sono stati
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Questo participio
aoristo è usato con lo stesso significato («trovarsi a essere») in At 26,5,
che è un testo giudiziario (τὴν ἀπ᾽ἀρχῆς gενομένην); ma anche in At 15,25 (decreto del Concilio
di Gerusalemme), una formula simile al Prologo di Luca. Il confronto tra
questi passi di Luca mostra che non è in alcun modo giustificato il
significato "e sono divenuti". Sono stati testimoni diretti dei
fatti.
Lc 1,1-4 è una
formula tecnica per presentare un documento ufficiale, quale è interamente
il Vangelo di Luca.
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τοῦ λόγου,
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della relazione
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Per capire il senso esatto di questa parola,
tra i numerosi suoi significati, c’è un sicuro temine di confronto nei
“logoi” menzionati poco avanti, “che hai udito”, “ricevuto a voce”, e
riguardo ai quali è richiesta una “certezza”, una “convalida”.
Questo “logos” era «la relazione» in
"ebraico", forse in aramaico con citazioni ebraiche delle
Scritture, degli avvenimenti che riguardano Gesù, che Matteo (affiancato
forse da altri scribi) aveva steso immediatamente dall’inizio. Non si poteva
scrivere qualcosa di più valido.
Il logoV
scritto dai testimoni era stato pubblicato,
come testimoniano Papia, Ireneo e Origene e come si può dedurre dal
fatto che coloro che lo ricomposero furono costretti a cambiare tutto ciò che
era possibile.
Aveva un aspetto frammentario, essendo fatto di
"appunti di cronaca", e per questo «molti» lo vollero «ricomporre
con ordine».
Il singolare logou
ha lo stesso significato del plurale logwn che
incontriamo dopo, altrimenti l’autore avrebbe spiegato in qualche modo il
significato diverso. Il plurale indica dei λὸγοι a voce, contrapposti a tutto il resto che
serve a produrre una prova scritta, partendo da un λὸγος scritto.
Λὸγος era il ragionamento, il contenuto (non il
"vocabolo") che doveva essere comunicato:
— proclamato
a voce, in ambiente greco-ellenistico (vedere At 15,27.32);
— scritto,
in ambiente ebraico, in particolare in quello legato al Tempio (e Luca è
legato al Tempio: Lc 24,53), dove vigeva la cultura del libro, dei rotoli,
della fedeltà alla parola scritta (vedere Lc 16,6-7.17); ma anche per i
Romani valeva lo scritto (vedere Gv 19,22; At 25,26).
Il significato di "scritto" si può
dedurre dal confronto con At 1,1, dove λὸγος significa chiaramente "relazione,
resoconto" scritto, per cui lo si può tradurre con "libro".
Anche Luca (At 1,1), dunque, ha prodotto (ἐποιήσαμην) un λὸγον (Il Vangelo, relazione di avvenimenti), e poi
un secondo (Atti degli Apostoli).
Particolare attenzione merita il termine λὸγος nel Nuovo Testamento: in generale esso
significa “il discorso che serve a rendere testimonianza di qualcosa o di
qualcuno”:
— è, per eccellenza, Colui che, in tutte le sue espressioni, rende testimonianza a Dio (Gv 1). È Colui che, presso Dio, ha
la vita («la vita era la luce degli uomini»); è, in Dio, Colui che
comunica agli uomini vita e luce; è Colui che stabilisce la relazione tra il
Padre e gli uomini;
— di conseguenza,
“la parola di Dio” indica la comunicazione, scritta o a voce, di tutto ciò
che Dio ha rivelato nell’Antico Testamento e Gesù Cristo ha portato a
compimento.
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ἔδοξε
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ho deciso
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Latino placuit: esprime una decisione autorevole e ufficiale, come At
15,22.25.28.
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κἀμοῖ
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anch’io,
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Al centro della simmetria: il funzionario Luca si
rende garante di tutto ciò che è scritto nel documento.
Luca
probabilmente era medico del Tempio e, perciò, molto abile nel tradurre
dall’aramaico al greco e viceversa, dati i rapporti continui tra il personale
del Tempio e i romani dominatori. Gli ebrei disdegnavano la medicina e
assumevano persone non ebree come medici del Tempio. Luca non veniva dalla
circoncisione (Col 4,11).
Come “molti hanno incominciato a ricomporre un
racconto”, anche Luca, avendo l’autorizzazione degli autori, si permette di
far uso del λὸγος.
Il racconto è già stato pubblicato, perciò
Teofilo può verificare l’esattezza della traduzione di Luca. L’evangelista,
con esatta cognizione di causa, lo traduce, lo completa, lo trascrive
ordinatamente e gli dà i requisiti di un documento ufficiale, da presentare
all’autorità ebraica e romana.
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παρηκολουθηκότι
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dopo aver acquisito
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Luca spiega come, aggiungendo al racconto di
Matteo notizie che non conteneva, ha potuto ugualmente scrivere a Teofilo una
prova documentaria valida.
Luca era giovane, ma lavorava già con un
compito pubblico a Gerusalemme quando Gesù ha iniziato la sua predicazione.
Lo possiamo comprendere leggendo il racconto dei due discepoli che si recano
a Emmaus (Lc 24,13-33). Se lo traduciamo con cura, scopriamo che Luca lo
racconta con un’immediatezza e una spigliatezza giovanile non evidenti in
altre parti del suo Vangelo. Inoltre non rivela il nome del secondo
discepolo, che pure è un importante testimone della Risurrezione. Questo
discepolo anonimo non può essere che Luca stesso. Per modestia ed essendo il
più giovane dei due (Cleofa era fratello di Giuseppe di Nazaret e padre di
Giuda e Simone, “fratelli di Gesù”, come sappiamo dallo storico
Egesippo, del II secolo, citato da Eusebio in Storia Ecclesiastica 3,11,2; 3,32,4.6; 4,22,4), non può dire apertamente di essere stato
testimone privilegiato di un’apparizione di Gesù risorto ma, nello stesso
tempo, dimostra di essere stato protagonista di quel fatto, il secondo
testimone necessario legalmente.
Così scopriamo che Luca ha fornito il suo aiuto
giuridico a Gesù Cristo nella vita pubblica e, dopo la Pasqua giudaica
dell’anno 32, ha
registrato il vessillo con il simbolo di Gesù per il suo accesso a
Gerusalemme (Lc 9,51).
Proprio perché era pubblico ufficiale e
anch’egli testimone di alcuni avvenimenti ha potuto aggiungere
autorevolmente sue testimonianze a quella relazione autorevole,
trascrivendola ordinatamente, per costituire la prova.
Nel Vangelo di
Luca troviamo spesso l’espressione: kai egeneto («e avvenne»)... Si dichiara così, come in una
deposizione di fronte a un magistrato, che i fatti raccontati sono avvenuti
esattamente come è scritto.
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ἄνωθεν
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da cima (a fondo)
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Vedere anche At 26,5.
Il significato “da cima (a fondo)”,
che è evidente in Gv 19,23, oppure “(giù) dall’alto”, permette di
interpretare adeguatamente il vocabolo, ovunque appare nei Vangeli.
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πᾶσιν
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ogni cosa
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Luca non avrebbe
raccolto alcun elemento di prova se avesse “ripercorso diligentemente” i “tentativi”
di scrivere il racconto che altri avevano compiuto senza successo.
Dobbiamo
intendere così: tutti a Gerusalemme avevano visto la conclusione dei fatti
(Lc 24,8), i testimoni e scrivani pubblici avevano steso la relazione
dall’inizio, Maria e i conoscenti di Giovanni Battista “conservavano nel
cuore tutte le parole” che servivano a raccontare l’inizio degli avvenimenti
(Lc 1,66; 2,19.51), Luca stesso ha seguito Gesù in alcuni momenti e ha
stenografato i suoi discorsi. Dunque ha acquisito tutto dall’inizio alla fine
dei fatti.
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ἀκριβῶς
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con esattezza
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καθεξῆς
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ordinatamente
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Luca doveva
riportare fedelmente e in ordine cronologico il “λὸγος”. Ma ciò non impediva al nuovo autore di
aggiungere altre testimonianze. Egli, che in parte aveva visto con i propri occhi,
dimostra al lettore del suo Vangelo di saper bene dove e come interrompere il
racconto di Matteo per inserirvi, nel giusto ordine di tempo, le
testimonianze che aveva acquisito personalmente. Vedere At 11,4; 18,23.
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σοι
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a te
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Teofilo era
figlio del sommo sacerdote Anna, ma aveva un nome greco. Doveva essere figlio
di una moglie ellenista di Anna; a Gerusalemme erano presenti numerosi ebrei
ellenisti (At 6,9). Il “λὸγος” in causa era già stato pubblicato da Matteo,
in “ebraico”, e Teofilo lo conosceva. Ma il nome e la cultura greca di questo
sacerdote furono per Luca un buon pretesto per trascrivere tutto in greco,
per un uso legale che richiedeva la lingua ufficiale dell’impero romano.
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γράψαι,
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scrivere,
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Scrivere con
esattezza quanto (sia scritto che a memoria) è stato acquisito (termine
legale), è sufficiente a produrre una prova documentaria.
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κράτιστε
Θεόφιλε,
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eccellentissimo Teofilo,
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Il titolo κράτιστος
viene attribuito, negli Atti degli
Apostoli, anche a Felice (At 23,26; 24,3) e a Festo (At 26,25), procuratori
di Roma in Palestina. Si tratta dunque di un titolo dato a persone che hanno
ottenuto il potere da Roma, proprio come Teofilo, insediato nella carica di
sommo sacerdote da Vitellio, legato di Tiberio, dall’anno 40 al 44
(Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche,
XVIII,123; XIX,297).
Quindi Teofilo
era al livello di questi e apparteneva alla classe politica come loro, non
era un personaggio che si confondesse con molti altri dello stesso nome,
oppure un’autorità ecclesiastica.
In quegli anni la Chiesa era in pace per tutta la
Palestina, a opera appunto di Teofilo (At 9,31).
Non dobbiamo aspettare altre prove, ad esempio
ritrovamenti archeologici, per essere certi di questa identità di Teofilo.
Infatti si tratta di una possibilità reale e di un elemento che risolve molte
questioni storiche. Quali scoperte archeologiche ci potrebbero dire tutto
quello che si è potuto raccogliere qui?
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ἳνα
ἐπιγνῷς
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perché (tu) veda
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In
contrapposizione a κατηχήθης. Teofilo ha già «udito» le relazioni a voce.
Luca vuole mettere in mano a Teofilo un documento visibile, scritto, perché
le relazioni orali non erano state sufficienti per lo scopo che Tiberio si
era prefisso.
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περὶ
ὧν (= τῶν...
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circa le
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È essenziale,
qui, notare l’attrazione del nome λόγων, in caso genitivo, sul pronome relativo in
caso accusativo. Questo accusativo non è stato riconosciuto nella traduzione
latina della Vulgata, curata da S. Girolamo, e ciò ha sminuito il valore
documentario dei Vangeli, impedendo anche di comprendere la storia della loro
origine. Questa parola di sole due lettere causa una catena di considerazioni
logiche. È ben diverso che Luca sostenga «la verità delle parole circa le
quali sei stato informato», o che produca «la certificazione circa le
relazioni che ti sono state inoltrate a voce». Tutto dipende dalla traduzione
di ὧν.
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...
οὓς) κατηχήθης
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che hai udito (= ricevuto a voce)
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L’esempio di At 21,21 (κατηχήθησαν = «hanno sentito dire») ci mostra chiaramente
quale significato attribuiva Luca al verbo, mentre At 21,24, «καὶ
γνώσονται
πάντες ὃτι ὧν (= ἐκεῖνων
ἃ) κατήχηνται
περὶ σοῦ οὐδέν
ἐστιν», ci
permette di confermare che esso regge l’accusativo dell’argomento udito, come
è classico. Infatti, in quel passo troviamo la stessa attrazione (ὧν = ἐκεῖνων
ἃ)), in presenza dello stesso verbo, e ci è
possibile affermare che è avvenuta tra un pronome relativo in caso genitivo
e uno in caso accusativo.
In conclusione: il verbo κατηχέω non indicava ancora la specifica “catechesi”
cristiana, ma una generica comunicazione a voce.
Teofilo, dunque, ha visto Gesù, si è informato
di ciò che non ha visto e ha inoltrato delle relazioni a voce a Tiberio,
probabilmente con l’assenso di Pilato (Tertulliano, Apologeticum, 5,2).
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λόγων
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relazioni
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Si può
ragionevolmente ritenere che, tanto al singolare che al plurale, in
quest’unico periodo sintattico, λὸγος abbia lo stesso significato: «relazione,
resoconto». Perciò λόγου e λόγων appaiono in contrapposizione scritto - orale.
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τὴν
ἀσφάλειαν.
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la documentazione.
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Questo vocabolo, posto in evidenza alla fine
del pezzo, lo determina completamente, richiamando per simmetria διήγησιν. Prendiamo come riferimento At 25,26: ἀσφαλές
τι
γράψαι significa "qualcosa che vale come prova legale (per l’autorità di
Roma: Cesare), da scrivere", in quel caso specifico è una confessione
dell’imputato Paolo di Tarso. Ἀσφάλεια (astratto per il concreto) ha un significato
corrispondente: «il documento scritto valido come prova» (per l’autorità
giudaica e romana).
Luca vuole fornire a Teofilo un documento
scritto, secondo l’esigenza legale. Per l’autorità romana (Gv 19,22; At
25,26), come per quella ebraica (Lc 16,6-7.17) valeva ciò che era scritto.
Con la
“relazione” di Matteo e con altri racconti
di testimoni, conservati «nel cuore», Luca compone la «prova» per
l’«eccellentissimo Teofilo» e ci fornisce così anche una data: prima
dell’anno 40 quando Tiberio era ancora vivo.
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L’IMPORTANZA
DEL DOCUMENTO
Per
stabilire come sono stati scritti tutti e quattro i Vangeli è determinante questo
passo di Luca, che spiega il procedimento seguito dall’evangelista, in effetti
riscontrabile nel suo Vangelo. Ma questa testimonianza è sembrata poco
interessante, già alla fine del I secolo.
La
traduzione approssimativa e illogica, che non rispecchi affatto il contenuto
del Vangelo di Luca, si è trascinata fino ai nostri giorni.
Per i
grandi cambiamenti storici, che separarono il tempo in cui erano stati scritti
i Vangeli dal tempo in cui furono ripresi dai Padri della Chiesa come documenti
necessari a conoscere Gesù Cristo, ci fu un ribaltamento di punto di vista. Il
perno di ciò fu la caduta di Gerusalemme e la distruzione del Tempio nell’anno
73 (70), ossia la fine di una situazione e di una cultura che i Vangeli danno
invece per scontata. L’intenzione di chi aveva scritto era di fornire
testimonianze sicure, non immaginando nemmeno quali rivolgimenti ci sarebbero
stati di lì a pochi anni. In seguito i Padri, riprendendo in mano i Vangeli,
non riuscivano più a trovare le notizie storiche necessarie e non avevano più
l’interesse di Luca a mantenere l’amicizia con gli Ebrei e con Roma. Infatti,
nel 67 (64), erano iniziate le persecuzioni di Roma contro i Cristiani ed erano
cresciuti sempre più i contrasti tra questi e gli Ebrei.
Se,
dunque, Lc 1,1-4 non fu più compreso, nemmeno tutto il resto dei Vangeli fu storicamente
comprensibile. A tal punto che non era più possibile sapere in quale lingua
fossero veramente gli originali.
Così,
molti aspetti dei Vangeli sono rimasti oscuri e sono divenuti più difficili di
quanto lo siano in realtà. Ciò
portò inevitabilmente all’interpretazione un po’ moralistica della parole di
Gesù e a considerare i libri sacri e la stessa la fede come alquanto
indipendenti dai fatti materiali della Rivelazione.
La Chiesa cattolica non ne ha molto risentito, ma in conseguenza di
ciò ha preso viva coscienza dell’altro fondamento della fede: la Tradizione
vivente. Tuttavia è rimasto sempre
forte il bisogno di scoprire con quale fedeltà storica i Vangeli raccontino gli
avvenimenti, perché agli inizi la fede si era fondata solidamente sui fatti,
mentre sembrava che questo tipo di fondamento non fosse stato conservato nei
quattro Vangeli, per le apparenti incoerenze dei racconti.
Ora abbiamo visto che è
possibile ritrovare il senso logico di Lc 1,1-4, per cui si può ritrovare il significato logico di molti altri passi dei
Vangeli; fino a scoprire che la logica dei testi si ritrova soltanto in quelli
scritti in greco, che appaiono, così, originali. Ogni evangelista si è espresso
chiaramente e non ci sono significati congetturali, come se ci fossero state,
di mezzo, traduzioni effettuate senza capire il senso.
Allora è
anche possibile riscoprire tutto lo svolgersi dei fatti storici, in modo pienamente
coerente con la situazione di quel tempo, fino a renderci i Vangeli come
testimonianze storiche incomparabili. Quali altri libri di storia antica
contengono certificazioni, come questa di Luca e come quelle che troviamo nel
Vangelo secondo Giovanni?
Sappiamo dai Vangeli stessi che
Matteo era esattore delle tasse a Cafarnao, dove Gesù andò ad abitare
«all’inizio» della predicazione. Luca ci porta a scoprire che Matteo incominciò
subito ad annotare quello che Gesù diceva e faceva, momento per momento. E lo
fece su "quaterni", "in lingua ebraica". Alla fine riunì i
quaterni in un codex e lo pubblicò.
Da parte sua, Luca, che era pubblico ufficiale a Gerusalemme, era
presente alla morte di Gesù ed è uno dei due discepoli che si dirigevano a
Emmaus il giorno della risurrezione. Aveva la possibilità di usare il racconto
scritto di Matteo e lo tradusse in greco.
Il libro risultava,
però, dispersivo, per cui un gruppo di scribi si prese l’incarico di
rielaborarlo, ancora sotto la supervisione di Matteo. I «molti», che
intrapresero il lavoro, erano scribi ellenisti-cristiani di Gerusalemme, ma
anche i diversi testimoni.
In tal modo Luca ci spiega come nasce il Vangelo greco secondo Matteo:
«riordinando» l’insegnamento di Gesù.
Quando i «molti» si accinsero “a strutturare un racconto ufficiale”, Luca
s’incaricò di trascrivere il libro "ebraico" di Matteo, nell’ordine
esatto che aveva, e vi inserì in ordine di tempo tutte le testimonianze
acquisite personalmente. Compose in tal modo un documento ufficiale e lo
presentò, a Gerusalemme, al sommo sacerdote Teofilo, dietro sua richiesta.
Questi era in carica per opera di Vitellio, legato di Tiberio in
Siria-Palestina.
Così nulla è andato
perso degli scritti evangelici. Sarebbe stata un’imperdonabile negligenza!
Venendo ai nostri
giorni: tutto il fervore scientifico degli ultimi tre o quattro secoli non è,
per caso, un segno della Provvidenza che vuole darci i mezzi per restituire ai
Vangeli tutta la concretezza originaria?
La scienza, con la sua
critica, ha reso sempre più impellente una verifica storica dei Vangeli; ma ha
pure fornito gli strumenti per indagare e sviluppare nel modo più concreto
quanto è contenuto in essi, così che lo si possa verificare secondo i parametri
di giudizio culturali e scientifici attuali. Con un profondo lavoro critico è stato possibile ricostruire, con
pochissime incertezze, i testi originali, cosicché siamo in contatto diretto
con gli evangelisti e addirittura, soprattutto nel Vangelo di Giovanni, con
Gesù Cristo che conosceva il greco.
Già dopo questa breve
analisi si scopre che nulla dei Vangeli è storicamente insignificante, per cui
è possibile approfondire all’infinito la loro realtà e concretezza storica, nei
vari aspetti scientifici, senza temere alcuna verifica.
Dopo di che la scienza,
che è considerata la concretezza di oggi, diventa «ancella» sempre inadeguata
del Vangelo, perché ha l’opportunità di ricavare tutte le implicazioni
scientifiche, utili per la vita di oggi, da quei fatti concreti e buoni di duemila
anni fa. Ha la possibilità di svilupparne la straordinaria verità.
Giovanni Conforti
Aggiornato il 7 agosto 2018
Iniziativa personale
di un laico cattolico, Giovanni Conforti - Brescia - Italia.
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